Questo racconto partecipa all’iniziativa “Risorgimento di Tenebra” promossa dal gruppo Moon Base, la pagina facebook degli amanti della fantascienza e del fantastico.
Ecco l’elenco dei paragrafi usciti finora.
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Nonostante siano passati molti anni, non dimenticherò mai il giorno in cui partimmo per quella spedizione, che null’altra meta aveva se non i recessi stessi del mondo. E se pure un sentimento di sepolcrale orrore misto ad angoscia ancora oggi mi attanaglia nell’indulgere in tali ricordi, è ormai mio intendimento portare a compimento il resoconto di quei giorni, per coloro che verranno dopo di me e continueranno la mia opera.
Non mi occupai dei dettagli della spedizione, né di alcuna parte dei preparativi. Poiché vivevo allora di una rendita ed ero sottoposto all’autorità dei miei genitori, dovetti invece lambiccarmi per settimane ad inventar una scusa attendibile che mi permettesse di organizzare la mia partenza dalla città senza causar loro sospetti di alcun genere. Il Principe Moncada ci aveva ben avvertito che per molti di noi l’impresa sarebbe potuta essere letale e occorreva dunque prepararsi d’anticipo a non rivedere più i propri cari e a non lasciar conseguenze e sospetti sugli eventuali sopravvissuti. Non ricordo i dettagli dell’intricata tela di raggiri che ordii per evitar di nominare la destinazione del mio viaggio, i miei compagni e gli scopi nostri eccezionali. Ricordo invece il muto sospetto negli occhi di mio padre, che ben intendeva come stessi raccontando fandonie ma di più non chiedeva, e l’incondizionato amore di mia madre, che mi riempì come solito suo d’attenzioni, ammonimenti e raccomandazioni.
Ma tant’è… Quanto significano questi particolari di fronte a tali eventi successivi? Come una società di cospiratori saremmo partiti nottetempo per una missione segreta, avremmo scalato il vulcano più alto d’Europa e raggiunto un varco rupestre la cui ubicazione era nota solo ad una manciata di uomini al mondo. Infine avremmo proseguito la discesa attraverso i condotti del vulcano e da lì al cuore fiammeggiante del pianeta. Terminata la cena d’addio, il complice biasimo di mio padre e le lacrime di mia madre passarono presto nella mia mente in secondo piano.
Quando iniziammo il nostro viaggio, l’orologio del duomo non aveva ancora battuto la quarta ora antelucana. La nostra prima tappa sarebbe stata il villaggio di Bronte, ove saremmo stati accolti da un nobile inglese partecipe della nostra impresa. Ricordo quel primo tratto di strada come nient’altro se non colli pittoreschi e irte scarpate, man mano che ci si allontanava dai luoghi costieri più civili e ci si muoveva verso la Montagna. Il nostro numero era talmente consistente da richiedere la ripartizione lungo il percorso in varie comitive, per evitar di destare l’attenzione dei villani e delle autorità. Traversammo zone malariche, campi insalubri e aranceti sterminati, finché le nostre carrozze convergerono tutte alla riva di un torrente disseccato, dove ci fermammo. Il nostro ospite ci aveva inviato da Bronte dei muli per proseguire e una scorta di campieri, silenziosi e ben armati. Montammo su quelle forti bestie e proseguimmo in tale sinistra compagnia attraverso stradine ricoperte di lava, spaventosi precipizi, giganteschi cactus e mandorli secolari, addentrandoci nelle terre selvagge dell’entroterra.
Procedevamo in fila indiana, di tanto in tanto incrociando mulattieri impegnati nei loro affari o pastori erranti che suonavano la cornamusa alle loro poche e rachitiche pecore.
Dopo cinque miglia giungemmo a vista di Bronte, nient’altro che un ammasso di rozze case, chiese e conventi, stipati in modo confuso e circondati da colate laviche. Tutto era edificato in pietra nera e le colate di scorse eruzioni arrivavano a lambire le case più esterne, come se lingue scure le avessero volute leccare.
“Passeremo per il paese?” chiesi a una delle nostre guide. Ma quello tirò su lo schioppo e mi guardò come avessi sacramentato.
“Dio ce ne scampi! Essi discendono dai ciclopi medesimi e il diavolo stesso ha costruito la città per i suoi servi. Non vi sono in tutta l’isola contadini più ignoranti, sporchi e primitivi. Solo i maiali neri che costoro allevano dentro le case son peggiori: mostri neri dalla criniera villosa che essi nutrono dei figli in eccesso. Che il vulcano esploda e se li porti tutti…”
Mi volsi sorridendo ai miei compagni, per quello sfoggio di superstizione. Ma dietro di me nessuno sorrideva. Ignazio mi fece cenno col capo e recitò:
Senza legge costor, senza consiglio,
menan loro vita su negli erti monti,
negli antri oscuri e per le opache selve
qual fiere; questa è lor suprema voglia
né del publico ben punto cura hanno.
“Il diavolo non c’entra” concluse. “Ma è vero: essi discendono dai mostri selvaggi del mondo antico e sarà meglio starne alla larga.”
Giungemmo infine al palazzo del nostro ospite. I campieri serrarono i cancelli del parco e si dispersero per i posti di guardia convenuti. Trascorremmo il resto della sera a controllare l’equipaggiamento, che il Principe e l’Inglese avevano fatto raccogliere nella villa. Vi eran per noi attrezzature e armi a profusione, lanterne e scorte d’olio, viveri e scodelle, cordami e utensili, e ogni cosa venne distribuita tra le nostre sacche. Infine ci rifocillammo e avemmo modo di goder per l’ultima occasione del conforto di un alloggio civile, riposando in stanze lussuose fino alle prime luci del giorno.
Prima che il sole fosse alto in cielo avevamo già percorso diverse miglia attraverso la più selvaggia e nera regione montagnosa che si possa immaginare.
“Dobbiamo raggiungere il Cancello attraverso una via ritorta” mi spiegò il Principe, al cui fianco marciavo. “Nessuno del luogo deve vederci entrare per quei recessi, nonostante io temo li conoscano già.”
Eccetto uno o due tuguri miserabili, non vi erano case d’intorno in quella grandiosa desolazione e innanzi a noi torreggiava perennemente la Montagna, nostra meta e nostro nemico. Non vi era scorta con noi, né l’inglese aveva ardito seguirci: le sue mansioni per l’Accademia si erano concluse. Arrancammo sotto il peso delle gravosissime sacche su strade cupe e dirotte che sempre più s’inerpicavano per l’erta, tra rupi, massi e colate nere disseccate. Il percorso scelto ci condusse infine ad un gruppo di rocce selvagge, lungo una parete forata di caverne e anfratti.
Qualcuno innanzi gridò un allarme e subito ci disponemmo in atteggiamento di difesa.
“Dannazione!” esclamò il Principe. “Era proprio come temevo.”
Mi volsi indietro e attorno, cercando i nostri nemici. “Ci hanno seguito?”
“Tutt’altro” fu la risposta. “Ci attendevano, piuttosto.”
Dalle caverne venne fuori un orribile verseggiare di bestie e un gregge impazzito di maiali mostruosi ci caricò.
Dietro di esse emersero i loro pastori, pressoché indistinguibili dai porci.
Yum, maiali neri dei Nebrodi!
Si preannuncia un bel po’ d’azione nel prossimo capitolo! 🙂
credo proprio di sì…