Il Codice Cariddi è uscito su Amazon.it in una nuova veduta rivista e aggiornata. Per l’occasione sono stati aggiunti articoli e approfondimenti speciali. Ecco l’ultimo di questi, dedicato allo straordinario ritrovamento del faro romano di Capo Peloro.
Il faro romano di Capo Peloro
L’area dello Stretto di Messina, per le sue particolari conformazioni geografiche, è uno dei luoghi più importanti della nautica antica e moderna. Il ricordo dei pericoli del suo attraversamento, trasposto nel mito di Scilla e Cariddi, ma anche l’attenzione prestata più volte dagli autori classici alle sue peculiarità, sono due segnali di una notorietà molto diffusa nel Mediterraneo anche prima della colonizzazione greca. Una navigazione pericolosa ma necessaria, quella dello Stretto, e per questo sorvegliata da sempre dalle genti che controllavano l’area intorno alla zona falcata e quella rivolta a settentrione, fino all’attuale villaggio di Torre Faro. Il dominio di questo territorio fu quindi sempre legato (ed è spesso dipeso) da quello del tratto di mare prospiciente.
In questa logica, è stato necessario “attrezzare” il territorio per il passaggio navale nella direttrice Tirreno-Jonio e per l’attraversamento Sicilia-Calabria, gli assi fondamentali del doppio utilizzo dello Stretto. Innanzitutto opere di difesa e controllo, ma certamente anche punti di attracco e riparazione delle imbarcazioni, zone per l’ormeggio dei natanti in attesa delle migliori condizioni di attraversamento, mercati e punti di scambio in cui le genti dell’entroterra potessero incontrare quelle d’oltremare, santuari per onorare le potenze del mare, luoghi di ristoro e servizi vari, punti di segnalazione notturna e insediamenti di barcaioli, traghettatori e piloti che potessero aiutare le navi meno avvezze ai rischi dello Stretto.
Capo Peloro, collocato nel fronte siciliano del punto più importante dello Stretto, era il luogo in cui molti di questi “servizi” avevano luogo. Sappiamo della presenza di un tempio (dedicato probabilmente a Poseidone-Nettuno) tra i laghi costieri della duna sabbiosa che costituisce il Capo, mentre la stessa duna manteneva inoltre un ecosistema paludoso, a volte insalubre ma ricco di selvaggina e fonti di approvvigionamento, discretamente frequentato e fregiato di un suo proprio genius loci: quella ninfa Peloria, coronata di rose di palude, che appare in alcune monetazioni locali e di cui si è già parlato. Gli stessi laghi di Ganzirri e Faro, un tempo quattro bacini indipendenti ma connessi tra loro, con lo Jonio e col Tirreno da canali naturali e artificiali, fornivano comodo ricovero per le imbarcazioni nelle situazioni di corrente e vento avversi e forse anche un passaggio sicuro tra i due mari, alternativo alla traversata dello Stretto.
Non dovettero mancare punti di illuminazione e segnalazione sulla spiaggia, che già almeno in epoca tardo-repubblicana furono rimpiazzati da un vero e proprio faro, citato da Strabone (Geografia, III, 5,5) assieme a una torre analoga presso il Poseidonio di Reggio, in località Cannitello, e quindi in un punto prospiciente il lato siciliano dello Stretto.
Alcuni interessanti resti archeologici del periodo sono venuti di recente alla luce presso la Torre degli Inglesi, di pertinenza del Parco Horcynus Orca, proprio durante lavori di restauro e recupero del complesso edilizio degli ultimi anni, finalizzati alla restituzione di questo manufatto militare alla cittadinanza e al pubblico. Secondo le notizie e l’interpretazione data dai tecnici della Soprintendenza ai Beni Archeologici di Messina si tratta di alcune cisterne e un basamento quadrato a tre gradini di 25 metri per lato, in laterizio, che poggia su una ulteriore fondazione in cocciopesto, assieme a reperti vari e materiale datante. Di per sé molto interessante, il ritrovamento acquista ulteriore valore se confrontato con una emissione monetaria in argento del I secolo a.C.
In questo denario di Sesto Pompeo, datato al 42-40 o al 38-36 a.C. appare infatti un faro dal basamento a tre gradoni, sormontato da una statua di Nettuno dotata di elmo, tridente e timone e col piede su una prua. Il faro rappresentato ha innanzi a sé una galera, con a prua l’aquila legionaria e a poppa un tridente, una bandiera e un uncino d’ancoraggio. Nei diversi conii il faro presenta elementi differenti: appaiono due finestre, un marcapiano, una possibile porta, una possibile balconata. Nel rovescio si riconosce facilmente Scilla, il mostro della rupe calabra con cui il faro e la nave, assieme, dovevano ricordare lo Stretto e i motivi dell’emissione. Conosciamo infatti l’evento storico connesso al conio di questa moneta.
Sextus Pompeius Magnus Pius, figlio del generale Gneus Pompeius del Primo Triumvirato, si oppose a Cesare assieme agli altri membri della sua famiglia, rifugiando in Sicilia dopo la morte del padre e del fratello. Morto Cesare, Sesto fu considerato un ribelle e un pirata, capace di sconfiggere due volte le flotte di Ottaviano e tenere il dominio della Sicilia fino al 36 a.C., quando fu sbaragliato da M. V. Agrippa nella battaglia di Nauloco (3 Settembre 36 a.C.). Determinante per le sorti della battaglia, che consacrò Ottaviano come dominatore dell’Occidente romano, fu la Legio X Fretensis, che ottenne il suo cognomen proprio da questo episodio. Fretensis significa appunto “del Fretum”, ovvero “dello Stretto (di Messina)”, dato che il Nauloco (non ancora identificato con certezza) e la battaglia omonima dovevano trovarsi nello Stretto o nelle sue immediate prossimità.