La rubrica “Il Codice Cariddi”, appare dal 2007 sulla testata Ufficio Spettacoli, per indagare e raccontare segreti e misteri della Sicilia e in particolare del suo settore nord-occidentale: Messina, lo Stretto, le Isole Eolie, il Valdemone. I testi sono completamente rivisti rispetto all’originale, a seguito di studi successivi e dell’esigenza di una coerenza di temi e stile propria di una pubblicazione più matura.
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Gli atti dell’Inquisizione, come quelli relativi al caso di Pellegrina Vitello, processata per stregoneria nel 1555, ci forniscono un panorama interessante sulla professione delle arti magiche nella Messina del passato.
Le streghe erano chiamate in dialetto “Magare” (da cui l’odierno “Mavare”) e si occupavano essenzialmente di mettere e togliere fatture, jettature e malocchi. Utilizzavano amuleti e oggetti speciali come pupazzi di stoffa che andavano riempiti di spilloni, oppure cuori o altri simboli in cera, che andavano nascosti nelle case da maledire.
A questi oggetti, che venivano chiamati “maya”, si aggiungevano disegni e nodi rituali, come il segno di Salomone, ma anche specchi, candele, brocche d’acqua e olio. Le formule che venivano recitate nei sortilegi erano spesso preghiere cristianeggianti, filastrocche o parole magiche in un maccheronico miscuglio di latino, arabo ed ebraico (le fonti citano perfino il potentissimo Tetragrammaton, la parola più potente conosciuta in magia).
Le Magare (e i più rari “Nigromanti” maschi) venivano consultate anche per fornire rimedi d’amore e medicine varie, contraccettivi ed abortivi, leggere i segni del futuro e del destino, ritrovare oggetti smarriti e guarire tutti i misteriosi mali fisici e mentali che affliggevano il popolo.
Queste donne erano in genere di bassa estrazione, schiave, straniere o comunque relegate ai margini della comunità.
Erano considerate spesso alla stregua di “Donne di Fuora” o “Donne di Notte”, e cioè una sorta di fate delle foreste e megere notturne, esseri a metà tra l’umano e il soprannaturale.
Semplici portatrici di superstizioni popolari, le Magare di Messina finirono più volte nelle prigioni dell’Inquisizione, che le accusava di adorare e invocare le forze del male.
Gli inquisitori, dopo averle tormentate e vilipese, nei casi più gravi, con un gran profluvio di formule in latino, procedevano a bruciarle a Piazza Duomo. Se esse erano latitanti, gli inquisitori le bruciavano in effige, ovvero ardevano un pupazzo di cartapesta in vece loro.
Una procedura praticamente uguale a quella dei pupazzi delle streghe e alle pratiche di stregoneria, che credevano di combattere.
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